Approfondimenti

Smartphone e grandi numeri: un match forse vincente per le prossime sfide dell’eLearning

Aziende come catene della grande distribuzione o del manifatturiero si trovano a dover formare centinaia di dipendenti alle nuove tecnologie e tramite esse, in un paradosso che sembra irrisolvibile. Il digital divide esiste e non riguarda solo differenze geografiche, ma anche di tipo economico, sociale e culturale. Anche nel mondo del lavoro possiamo trovare situazioni diversissime rispetto alla conoscenza del digitale e delle sue potenzialità.

In ambito aziendale, pur rifiutando qualsiasi forma di classismo, il mondo anglosassone affibbia due colori a delle macrocategorie di lavoratori, per distinguere il lavoro di stampo più impiegatizio da quello manuale: colletti bianchi e colletti blu.

Se consultiamo il dizionario Treccani[1], la distinzione tra i due inquadra bene già parte del problema:

Colletto bianco/blu (ingl. white collars/blue collars) Termine che indica, per il c. bianco, la forza lavoro impiegatizia con funzioni di carattere intellettuale, non direttamente applicata all’attività produttiva ed estranea all’operatività sulle macchine delle fabbriche. […]

I c. blu sono invece i lavoratori manuali (operai) i quali, svolgendo mansioni ‘sporche’, indossano il meno delicato c. blu.

La Treccani ci ricorda saggiamente anche che “questa distinzione risulta, almeno parzialmente, obsoleta”, tuttavia, skilla stessa ci porta un caso in cui quel discreto ‘parzialmente’ sussiste ancora e si concretizza in una popolazione aziendale che è molto lontana dal digitale comunemente inteso. “Alcuni dei nostri clienti ci chiedono proprio idee per la fruizione dei nostri corsi da parte dei blue collar: queste persone non hanno email aziendale, non hanno postazione PC”, afferma Chiara Moroni, Coordinatrice dello Sviluppo Editoriale di skilla. Continua poi ponendo altri interrogativi: “Ci chiediamo allora, ad esempio, se c’è una postazione all’interno dello stabilimento nella quale si possono creare delle turnazioni, o se i dipendenti possono accedere dal proprio telefono mobile o dal PC di casa. Ma come fare senza mail? E questo comporterebbe molte obiezioni sia relativamente alla strumentazione che agli orari”.

A questo punto, ci sembra sensato lanciare delle ipotesi che vertono su due punti principali: l’uso dello smartphone e un invito all’uso proattivo del device digitale come viatico per un suo utilizzo a fini formativi.

Senza dubbio una spinta verso il mobile learning è una delle proposte più immediate ed interessanti. Pone ovviamente delle problematiche tecniche, ossia avere dei corsi che siano pienamente responsive, cosa che ha anch’essa dei costi e delle criticità non indifferenti, in primis la diversificazione dei telefoni cellulari e la loro evoluzione velocissima: il recente iPhone 11 ha messo in crisi molti sviluppatori di app per iOS che su tale device hanno alzato triste bandiera bianca. Non parliamo certo del telefono ‘di massa’, dove anzi si pone il problema contrario: tante persone hanno sì un apparato mobile, ma obsoleto. E parliamo di oggetti magari di pochi anni fa, ma è bastato il disaccordo sancito da Trump tra Google/Android contro Huawei per scombussolare a medio termine la vita di molti (me compreso, per inciso!).

Smartphone per l’apprendimento attivo

Tuttavia, se andiamo oltre alla nozione di base che vede il telefono cellulare come un medium da usarsi essenzialmente in ricezione, e cerchiamo invece di enfatizzarne le potenzialità creative, il discorso si fa più interessante. La scuola fornisce esempi eccezionali di uso degli smartphone in ambito didattico[2], dove quella che viene chiamata digital cooperative learning, e descritta come strumento di apprendimento alternativo alla tradizionale lezione, sta prendendo piede grazie a docenti molto proattivi. Se la nostra sfida nella formazione aziendale sta nel formare grandi numeri di persone che non hanno dimestichezza con l’ICT, possiamo però fare affidamento sul fatto che, in un’ottica pienamente BYOD, siamo di fronte a persone che sono spesso inconsapevolmente immerse nel digitale. “è un enorme e non sfruttato potenziale: abbiamo in tasca strumenti con 1000 volte la potenza e 100 milioni di volte la memoria dei computer che hanno guidato l’Apollo 11 durante l’allunaggio, ma li usiamo per mandarci emoticon e farci dei selfie”, afferma argutamente Luca Botturi del Laboratorio tecnologie e media in educazione della SUPSI in un recente articolo su questi temi.[3]

Di qui, le sperimentazioni suggerite prevedono percorsi nei quali gli studenti diventano parte attiva del processo di apprendimento: viene chiesto loro di cercare informazioni su un determinato tema o argomento, raccoglierle tramite una piattaforma (in genere ‘aperta’, trattandosi del mondo scolastico, quindi ad esempio Padlet[4]) per poterle poi ‘raccontare’ ai propri compagni. A volte viene chiesto di filmare, fotografare ed elaborare in maniera più o meno elementare quanto fatto, creando dei video tutorial per i propri compagni.

Anche in ambito aziendale è possibile tracciare un percorso simile: se pensiamo alla forza lavoro più ‘pratica’, può essere fruttuoso progettare dei percorsi formativi orizzontali nei quali le mansioni vengono spiegate tramite filmati girati usando uno smartphone. Questa pratica avrebbe applicazioni ad esempio in percorsi di induction, anche come passaggio di consegne tra ‘veterani’ e nuovi arrivati. Perfino in aziende non manifatturiere, ma di servizi, si fa viva la necessità di preservare le conoscenze e l’esperienza maturata dal personale in uscita, anche di tipo dirigenziale, affinché ne rimanga traccia in azienda.

Tra scuola e azienda, ipotesi ardite di mobile learning

“L’esperienza ha evidenziato che è possibile (e necessaria) l’implementazione di nuovi modi di apprendimento interattivo e trasversale […] utilizzando i più svariati strumenti per consentire la riduzione del social-divide”: questo il commento a conclusione del proprio articolo su “Filosofare BYOD” di Lia De Marco, Docente MIUR presso il Liceo delle Scienze Umane “G. Bianchi Dottula” di Bari, che è riuscita a far studiare filosofia ai propri studenti adolescenti tramite queste metodologie.

Non è un azzardo pensare che progetti di questo tipo, fortemente incentrati sull’auto- produzione di contenuti e sulla loro condivisione, il tutto solo (o quasi) tramite smartphone, possono avere un’applicazione nel mondo del lavoro. In azienda, similmente al ‘vecchio modello’ della classe scolastica, oggi forse in parte aggiornato dalle LIM, per raggiungere le masse di dipendenti che non hanno accesso a computer, “spesso ci si limita a creare delle locandine o dei video da mandare su maxi schermi”, prosegue sempre Chiara di skilla, segnalando in questo modo come il modello forse abbia bisogno di un forte aggiornamento.

Certamente, per sdoganare un uso proattivo e formativo dello smartphone a scuola o in azienda c’è ancora molto da fare, ma non è un’impresa impossibile. Il tutto esige un lavoro di coordinamento e progettazione attento ed articolato, dove, come ricordavamo nel precedente articolo, di cui il presente è naturale continuazione, il formatore o docente deve essere un facilitatore dell’apprendimento attivo, che sappia uscire da una classica modalità di ‘broadcast’ della formazione, per attivare un flusso virtuoso tra chi la eroga e chi la fruisce, attraverso il canale digitale.

Matteo Uggeri

[1] http://www.treccani.it/enciclopedia/colletto-bianco-blu_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/

[2] Vedere a tal proposito il numero della Rivista Bricks per la Scuola “Gli smartphone in classe: nemici o strumenti di apprendimento?”, febbraio 2020

[3] Vd. nota precedente, articolo Luca Botturi, “One-frame Movie: quattro percorsi per proporre lo smartphone come strumento creativo in classe”, Rivista Bricks, febbraio 2020.

[4] Padlet è definibile come una bacheca virtuale disponibile online. Per la sua gratuità (fino ad un limitato numero di progetti) e la facilità d’uso si sta diffondendo molto nella scuola – https://padlet.com/

Scritto da: Matteo Uggeri il 6 Aprile 2020

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